Con la sentenza n.5525 la Suprema Corte offre finalmente una lettura della normativa in materia di trattamento dei dati personali, conforme alla ratio della disciplina nazionale (prima l. 675/1996 ed ora d.lgs. 196/2003) e della disciplina comunitaria che l’ha informata (direttiva 95/46/CE), seppur con dei punti in cui mostra di cedere ad una visione del fenomeno non corretta.
La succitata normativa è volta, infatti, a disciplinare l circolazione dei dati e non certo a riconoscere nuove sfere di dominio esclusivo, cui sembrano alludere espressioni quali “privacy” e “riservatezza”.
Vero è che il legislatore comunitario e quello nazionale di conseguenza hanno riconosciuto che nella società moderno il dato personale è considerato un bene circolante, che in quanto tale è economicamente rilevante per chi opera sul mercato.
Non a caso, come anche si legge nella sentenza in commento, Il sistema introdotto con il D.Lgs. n. 196 del 2003, informato al prioritario rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona (e in particolare della riservatezza e del diritto alla protezione dei dati personali nonchè dell’identità personale o morale del soggetto cui gli stessi appartengono), è caratterizzato dalla necessaria rispondenza del trattamento dei dati personali a criteri di proporzionalità, necessità, pertinenza e non eccedenza allo scopo (quest’ ultimo costituendo un vero e proprio limite intrinseco del trattamento lecito dei dati personali), che trova riscontro nella compartecipazione dell’interessato nell’utilizzazione dei propri dati personali, a quest’ultimo spettando il diritto di conoscere in ogni momento chi possiede i suoi dati personali e come li adopera, nonchè di opporsi al trattamento dei medesimi, ancorchè pertinenti allo scopo della raccolta, ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l’aggiornamento, l’integrazione (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 7), a tutela della proiezione dinamica dei propri dati personali e del rispetto della propria attuale identità personale o morale.
Il trattamento dei dati personali deve, dunque, conformarsi ai principi ricordati ed esser contemperato con i diritti dell’interessato, la cui persona è, per cosi dire, definita dal modo in cui i dati sono comunicati all’esterno. In tal senso efficace è la figura dell’”immagine sociale” dell’interessato che può esser definita in negativo da un uso non conforme a verità o non piu’ rispondente all’attualità (come nel caso di specie).
Da ciò discende, secondo il ragionamento condotto dal giudice di legittimità, che deve riconoscersi al soggetto, cui appartengono i dati personali oggetto di trattamento ivi contenuti, il diritto all’oblio, e cioè al relativo controllo a tutela della propria immagine sociale, che anche quando trattasi di notizia vera, e a fortiori se di cronaca, può tradursi nella pretesa alla contestualizzazione e aggiornamento dei medesimi, e se del caso, avuto riguardo alla finalità della conservazione nell’archivio e all’interesse che la sottende, financo alla relativa cancellazione.
Il diritto alla rettifica delle informazioni personali ovvero alla cancellazione (c.d. diritto all’oblio) necessita di una tutela tanto maggiore nell’ipotesi di dati pubblicati nella rete internet, quale strumento potenzialmente permanente, che permette con facilità di accedere a dati pubblicati anche molto tempo addietro.
Al proposito la Suprema Corte ritiene che la rettifica di una notizia di cronaca risalente al passato non collida col diritto di cronaca, ma vero lo rafforzi, offrendo anche al cittadino-utente la possibilità di ottenere un informazione completa ed attuale.
Interessante sembra anche il riferimento alla responsabilità nel trattamento dei dati personali che ricadrebbe sul titolare del trattamento (la R.C.S nel caso di specie) e non sul motore di ricerca, che si limita a offrire ospitalità sui propri server a siti internet gestiti dai relativi titolari in piena autonomia, i quali negli stessi immettono e memorizzano le informazioni oggetto di trattamento (cfr. Trib. Milano, 24/3/2011).
I Giudici della Cassazione non sembrano. però. tener conto che lo stesso Google è stato condannato, sempre dal Tribunale di Milano ( sent. 1792/2010) con la nota sentenza Google-Vividown per non aver correttamente informato i propri utenti circa le condizioni da rispettare per la pubblicazione di dati concernenti terze parti.
E’ chiaro che non si può pretendere che il gestore del motore di ricerca abbia il controllo completo dei dati caricati nel web, ma forse si potrebbe chiedere l’adozione di nuove metodologie che limitino l’indicizzazione delle notizie immesse oltre un certo tempo.
Si garantirebbe, comunque, il diritto all’informazione poiché le notizie se attuali verrebbero ripubblicate ed aggiornate; dall’altro si tutelerebbe il diritto degli interessati a non vivere in un eterno presente e ad esser conosciuti per quello che si è o si fa e non per ciò che del passato è divenuto irrilevante.
(Cassazione, Sez. III, 5 aprile 2012, n. 5525)
da www.dirittoeprocesso.com
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